Bright Lights, Big City Book

IL GIORNO COME SEMPRE SARÀ


Bright Lights, Big City - Le mille luci di New York.

Tu non sei esattamente il tipo di persona che ci si aspetterebbe di vedere in un posto come questo a quest'ora del mattino.
Questo è l'incipit, comincia proprio così.

E perché lui e il posto e l'ora del giorno non si accordano?
Perché a quell'ora, le 4 del mattino, lui dovrebbe essere a casa a dormire, la mattina dopo deve andare al lavoro.
Sarà uno straccio per aver passato la notte in piedi.
Averla passata sniffando coca boliviana.
Al punto da non sapere dove si trova.
Infatti, il "posto" a lui è poco chiaro: sa per certo che è un locale notturno, chiamiamolo nightclub, ma potrebbe essere l'Heartbreak, oppure il Lizard Lounge.
La coca boliviana e l'alcol, ingeriti in quantità allegre, gli annebbiano il cervello, e quindi, non è ben sicuro di sapere dove si trova.
Sa però che è appoggiato a un pilastro, che potrebbe non essere portante ma di sicuro per lui è importante perché se non ci fosse appoggiato sarebbe sul pavimento - e sta parlando con una ragazza che ha la testa rasata a zero e che forse gli ha detto come si chiama ma certo lui non se lo ricorda.


Michael J. Fox, inadatto al ruolo, miscasted, viene battezzato Jamie.

Chi è lui?
È quello che in Italia chiameremmo un giovane aspirante scrittore.
Invece, in US lo chiamerebbero solo aspirante scrittore, senza giovane, perché avendo superato i 25 anni, non ha più diritto a questo appellativo.
Non sappiamo come si chiama, il suo nome non compare mai, è l'unico che rimane ignoto, è un protagonista così depresso da non avere neanche un nome.
Lavora in un importante rivista (con chiaro riferimento al New Yorker) al reparto fact checking (verifica dei fatti), uno di quei lavori che in Italia non esistono, e non si pensa neppure di avviarli, uno di quei lavori fondamentali ma per nulla scintillanti.
E sì, gli piace scrivere, e ancor più gli piacerebbe pubblicare, magari una raccolta di racconti, cominciando da uno qui e uno là su qualche rivista, come di solito si inizia la carriera di scrittore da quelle parti.

Siamo all'inizio degli anni Ottanta (il romanzo è uscito nel 1984) e questo è importante: perché queste pagine rappresentano la quintessenza di quel periodo, ne sono figlie, e al contempo, lo illuminano, lo spiegano, lo raccontano.
E siamo anche negli anni dell'edonismo reaganiano, degli yuppie, dell'economia che andava a gonfie vele, e tutto sembrava in crescita, quando finalmente l'uomo bianco occidentale, forse per la prima volta, si trovava tra le mani una vita che sembrava senza aspetti negativi, anche in quel momento, dietro la copertina luccicante, scostando il velo…


Kiefer Sutherland è l'amico Tad che procura la cocaina al protagonista.

Come mai questo protagonista è così depresso da non avere neanche un nome?
Perché la sua bellissima moglie l'ha appena lasciato.
Lei è una modella, è andata a Parigi per sfilare, lo ha chiamato da lì per dirgli "non torno, rimango qui, tra noi è finita, grazie di tutto, bye bye".
Prima di partire per Parigi, Amanda, ha prestato il suo viso come calco per un manichino: è stata un'ora e mezza col viso coperto da una maschera di lattice respirando attraverso due cannucce infilate nelle narici.
E adesso che è stato liquidato con una semplice breve telefonata, lui la vede in giro per la città, dietro le vetrine di Bloomingdale, nei manichini esposti.

E così, il nostro protagonista fatica a metabolizzare questo abbandono, non riesce a tenere la testa su quello che fa, si lascia andare, sniffa, beve, tira tardi, combina casini sul lavoro, che infatti finirà col perdere, sarà licenziato.
Come se non bastasse c'è che sua madre è morta da un anno di cancro, e le cose fra loro hanno cominciato ad andare meglio solo poco prima che lei morisse.


Il film è del 1988, diretto da James Bridges, che ne ha fatti di migliori.

Ma perché questo protagonista così depresso da non avere neanche un nome si esprime con la seconda persona, si rivolge a se stesso?
Beh, un motivo direi che è nella novità della cosa: narrare attraverso il 'tu' nel 1984 era pratica meno nota di ora - qualcuno direbbe che forse era la prima volta che si faceva, ma ho dubbi in proposito. In ogni caso, era un approccio letterario insolito. Spiazzante.
Nel caso di questo bel romanzo è perfettamente giustificato secondo me, non certo solo un mero esercizio stilistico: perché questo protagonista così depresso da non avere neanche un nome per la maggior parte della storia è come se fosse doppio, si guarda da fuori, non approva quello che fa, e solo nel finale, nel bel capitolo che chiude il libro, si riappacifica con se stesso in quello che si può definire una possibilità di happy ending.
Perché se fino all'ultimo capitolo il viaggio è sembrato senza speranza, marchiato dal fallimento, adesso si comincia ad avvertire l'inizio, o almeno il desiderio di una ribellione, si comincia a intuire una luce in fondo al tunnel.
Magari solo questa:
il profumo del pane ti avvolge come una pioggerella leggera. Inali profondamente, ti riempi i polmoni. Ti vengono le lacrime agli occhi, e provi una tale sensazione di tenerezza e pietà che sei costretto ad attaccarti a un lampione… Il primo boccone ti si ferma in gola e ti fa quasi vomitare. Dovrai cercare di andar piano. Dovrai imparare tutto daccapo.


Dianne Wiest è la madre.

Il 'tu' è un martello che colpisce rigo dopo rigo (o meglio, visto che la coca è così centrale in questa storia, meglio usare il femminile riga), pagina dopo pagina: incalza, spinge, scandisce secco e bruciante.

La prima luce del mattino disegna contro il cielo i grattacieli del World Trade Center sulla punta dell'isola.

Da noi Bright Lights, Big City è arrivato nel 1986 pubblicato da Bompiani. Prima di Meno di zero e Ballo di famiglia.
E qui da noi si cominciò a parlare di minimalismo come mai prima.
Al punto da recuperare Carver, che da maestro di alcuni di questi scrittori, in Italia editorialmente parlando diventò quasi un loro discepolo.
Ci fu anche Tama Janowitz, da noi notata meno, e per un attimo anche Susan Minot.
In USA li definivano il literary brat pack, la banda di monelli (una forma di parodia del rat pack di Sinatra, Dean Martin&Co.), per differenziarli dalla banda di monelli del cinema (Sean Penn, Rob Lowe, Demi Moore eccetera).

Qui da noi a me pare che solo Tondelli sapesse intercettare il tempo e l'epoca con questo acutezza, profondità e qualità. Senza essere datato: sia i libri di Pier che questo esordio di Jay hanno conservato il loro valore letterario evitando di restare inchiodati al loro periodo storico (di costume).

PS
Del film non vale la pena parlare, mediocre sotto qualsiasi punto di vista.


Richard Estes: Booths. 1967